Perché ho lasciato i social network

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In breve: quelli che chiamiamo social network non sono più social ma solo forme di intrattenimento che danno dipendenza, e che inducono potenziali squilibri chimici che fanno male al nostro cervello, inteso proprio come organo interno.

Se sapete chi sono, sapete che non sono un luddista1. Se non sapete chi sono, ve lo dico io: non sono un luddista. Non odio la tecnologia, anzi: ci vivo e ci pago le bollette. Nè voglio sputare in quel piatto – i social, certo – dove per un quindicennio ho vissuto piuttosto bene, e dove ho conosciuto molte delle persone con cui ho avuto relazioni a vario titolo. Ma c’è un tempo per ogni cosa, e quel tempo è terminato.

La medicina di un’epoca è il veleno di un’altra.
Nel 1898 la Bayer mise in vendita l’eroina come soppressore per la tosse. Fu vista subito come un farmaco estremamente efficace. Funzionava molto bene. Troppo: tanto che sciami di casalinghe a rota di eroina sperimentavano crisi gravissime di astinenza.
Nel 2020 l’epidemia di COVID-19 ha costretto (quasi) un intero pianeta per (quasi) due anni a degli arresti domiciliari de facto. Senza i social network la vita sarebbe stata molto più complicata. È dato pensarlo, non senza qualche riserva.

Se non è necessariamente una delle persone più intelligenti che conosco, l’amico S. ci si avvicina molto, nonostante il suo tono di understatement. Lo vedo creare e popolare tabelle excel sul mondo del lavoro come se guardasse dentro la matrice, con facilità irrisoria. E provo un brivido lungo la schiena quando al bar mi racconta che “certe sere le passo a guardare Tiktok per tre ore, e il giorno dopo non riesco nemmeno a leggere i testi e a capire cosa leggo”.

Probabilmente mi direte che sono esagerato, ma credo che sia il momento di trattare i social come quello che sono diventati: uno strumento che favorisce l’insorgere di malattie mentali.
Prima che vi mettiate a ridere vi vorrei far riflettere su questa cosa: una malattia mentale non è necessariamente frutto di una qualche forma di sofferenza astratta dello spirito. Anche se noi siamo abituati a considerarlo come parte di una categoria a sé stante, il cervello è un organo interno come il fegato, la cistifellea o l’appendice. Certo, prestigioso: è la Rolls Royce2 degli organi interni, l’aristocratico contenitore della nostra anima o supposto tale. Ma, pure sofisticato com’è, apice della creazione e punto più alto dell’evoluzione, è un’organo interno, e come male si ammala.
Molti fenomeni psicotici, molte malattie che noi chiamiamo impropriamente “della mente” sono in realtà problemi di chemical imbalancement che si riflettono in malfunzionamenti del cervello, con i conseguenti deliri che sappiamo. Non sono un medico, quindi manterrò ad un ragionevole livello quello che potrebbe diventare un discorso più grande di me, ma credo sia lecito dire che certe forme di depressione vengono trattate con il Litio non perché il Litio ci avvicini a qualche sostanza eterea e ci riconcilino con i nostri chakra. No: fa bene all’organo interno chiamato cervello.

Dieci anni fa i social network non erano come ora: sì, la dipendenza da dopamina causata dalle spunte rosse era nota. Le notifiche ci davano quella piacevole scossetta che ci intratteneva.
Ora i social network, però, non sono più quelli di mi fist di dieci anni fa. Ora i social network – per modo di dire, peraltro, come vedremo – sono Tiktok, Instagram Stories, Facebook stories in primis e a seguire Facebook, e quella roba che non chiamerò mai X ma Twitter, che ho abbandonato in seguito al suo cambio di linea editoriale, che definirò, con uno slancio di politically correctness, molto sbarazzina.
Non sono social network in senso stretto: la fruizione di Tiktok non prevede amici. La visione delle stories su questo e su Instagram non ci viene più comminata in senso stretto facendoci vedere quello che fanno i nostri amici – che era un po’ la ragione per cui eravamo lì – e – sorpresa sorpresa – non più nemmeno in base alla gente che seguiamo, ma in base all’algoritmo che decide per noi cosa ci piace.

In un contesto dove il margine di attenzione di un essere umano davanti ad un social del genere è di meno di due secondi, il nostro cervello riceve una media di almeno quaranta “dopamine hits” al minuto. Tre ore di visione, come diceva S. tra il serio ed il faceto, sono SETTEMILADUECENTO stimolazioni al nostro cervello.
Settemiladuecento volte il nostro organismo propina al nostro cervello una sostanza che ne altera l’equilibrio psicofisico.
“Fulvio, mi fai ridere! Ma chi è che guarda tre ore di social al giorno!?”.
Ora prendete il vostro cellulare, e, se ne avete il coraggio, andate su “benessere digitale” e guardate le vostre statistiche. Vi accorgerete che il tempo trascorso sullo smartphone è molto più alto di quello che pensate. Ci sono molti libri che raccontano un dato, squisitamente neurologico, che ci fa dubitare di principi fondamentali etici quale il libero arbitrio. Nella versione cortissima, il nostro sistema nervoso è molto più ramificato e con più centri decisionali di quello che noi immaginiamo, ed è fatto, in caso di stimoli riconosciuti come positivi, per bypassare un intervento dretto del cervello per fare cose che sono già state “codificate” come buone. Si vede proprio a livello di elettroencefalogramma: la mano parte prima che il cervello emetta un impulso. Se vedo del finger food, la mia mano parte per portare il cibo alla bocca anche se sono a dieta, anche se sopra c’è veleno per topi. Immaginatevi questo che problema sia ad esempio per un alcolista: il nostro cervello deve fare uno sforzo per dire “no” a qualcosa che razionalmente sa essere negativo per lui, ma che sta già per ricevere come positivo da questo meccanismo di feedback. Questo sforzo peraltro varia a seconda dei momenti di tensione: il confort food è causa di sovrappeso per tanti di noi nei momenti di stress.
Ora, fatevi venire un brividino mentre pensate a quante volte, nei tanti momenti morti di una giornata, avete portato la mano al telefono, sovrappensiero, e l’avete aperto per una dose di dopamina.

Con l’amico M. mi faccio lunghe chiacchierate serali. Un giorno mi racconta di questa amena storiella che vi riferisco, spiegandola con questo grafico, che graziosamente mi gira:

Ci sono tre tipi di intrattenimento: “Kill time”, quello dove sei alla fermata dell’autobus e passi quel tempo che definiresti noioso ad intrattenerti con cose a bassissimo tasso di engagement: non richiedono attenzione se non episodica, addirittura irrilevante, possono essere interrotti in ogni momento e forniscono una dose di dopamina molto elevata. “Spend time”: la mia ex-suocera stirava con la TV accesa, guardando delle serie TV, e mi stupivo quando a metà puntata mi cominciava a parlare di cose. Ma come, dicevo io, ma non segui? Sì sì, bon bon, ma seguo un po’. Ascoltiamo podcast e video long form di Youtube e Spotify in maniera distratta, a pezzi e bocconi, come sottofondo. La mia amica M, donna intelligente e al di sopra di ogni sospetto usò, in tempi non sospetti, l’espressione “guardare un acquario” relativa al suo guardare Non è la rai. Lo lasci lì, e lui fa cose.
“Make time” invece sono le attività come andare al cinema, dove spegni il telefono (con la mano che già ti prude) e “trovi il tempo” per seguire una cosa sola.
È evidente e preclaro che si tratta di tre cose diverse. Come è evidente e preclaro che le attività make time sono quelle più costose in termini di attenzione. Qualunque pedagogo – ma anche qualunque genitore di medio buonsenso – sa che lasciare i propri figli di fronte al cellulare significa condannarli a una potenziale ADHD. Ma usare il cellulare come babysitter è pratica abbastanza usuale oggigiorno. Come una volta era dare eroina ai propri figli come sciroppo per la tosse. Brividino di nuovo, sì?

L’amica A mi consiglia di leggermi “Yoga” di Emanuel Carrére. Lì conosco per la prima volta il termine Vritti, un termine buddista che si riferisce a quei vortici di pensiero che ci impediscono di concentrarci sulla meditazione, come fastidiosi moscerini che si aggirino per la nostra mente. Fare doomscrolling sui social è come invitare nella nostra mente decine di vritti, abbassare il nostro focus e la nostra concentrazione. E – qui arriva la parte peggiore – per niente.

  • il contenuto al quale oramai veniamo esposti è di bassissima qualità. Viene chiamato “Brain rot”, parola dell’anno 2024, cioè quelle cose che, per dirla facile, ti fanno rincoglionire: brevissimi sketch idioti, balletti, nonsense. Intrattenimento simile a quello che si dà mettendo Mozart alle mucche mentre sono alla mungitrice. Armi di distrazione di massa.
  • A questo si aggiunge ora lo SLOP, cioè tutto quell’insieme di contenuti generati dall’AI anche questi di bassissima qualità, che servono solo a tenervi incollati allo schermo.
  • In un contesto dove il contenuto da voi visto viene regolato da un algoritmo che decide non in base alle vostre preferenze ma alle vostre reazioni ai suoi contenuti, non siete più padroni o quasi delle cose che vedete. Extra mile da parte di Zuckerberg che vuole costringere gli advertisers a non usare più proprie creatività ma contenuti generati in AI da Meta stessa. E ho già visto questa cosa fallire tanti anni fa, dove un’idea buona si arenò quando si cominciò a fare forza su chi forniva i contenuti per usare i propri pagando un extra.
  • Le reazioni più di successo sono basate sui trigger emotivi che ci tengono più tempo attaccati allo schermo, e come tali più polarizzanti. Ho aperto il mio account Bluesky all’uscita da Twitter e non ci vado mai, “perché lì non succede nulla”. Le reazioni polarizzanti sono stati lo schiacciasassi dei populismi per prendere il potere. Reuters ha pubblicato nel suo news report evidenza che le persone che seguono la politica e le news sui social media sono più portate a seguire posizioni populiste. E non so voi ma io ne ho anche le scatole piene di dover saltare i post di qualunquismo politico per vedere le foto dei figli dei miei amici. Quando ho visto un mio conoscente del mondo del reggae, tutto pace e amore, condividere un video dove “una soldatessa ucraina cantava una canzone mentre indossava una pettorina per usare un neonato come scudo umano” ho capito che oramai era troppo tardi. E qui estendo il paradigma anche alle catene su Whatsapp e su Telegram.
  • La socialità sui social, al di là di qualche commento sui post degli amici dopo il derby, è diventata uno slalom gigante tra pubblicità, contenuti acchiappaclic basati sull’algoritmo e sempre meno interazioni umane. Persino i social per il dating si sono pesantemente arenati: un po’ perché su internet non si rimorchia più e non si va più virali (il concetto di “visione in organico”, cioè senza pagare, è morto), un po’ perchè la gente vuole conoscersi di persona.
  • In tutto questo passerò a volo d’uccello sul fatto che questo porta ai soliti discorsi di FOMO (“che vita di merda faccio a Udine mentre a Milano c’è la vera vita”), di disinformazione, di dismorfofobia (i social sono un motore di propaganda per anoressia e malnutrizione) e un ricettacolo di malumori, sfogatoio orwelliano dei 15 minuti (…magari 15) di odio quotidiano. Gà sapete.

Ho chiuso i miei account sui social network?
No.
Li tengo aperti e li uso solo come segreteria telefonica per i miei amici, e qualche raro post come per l’uscita del mio libro. Ma tipo di finire nel girone polarizzante del “commento al fatto del giorno”, mai più. Non sono interessato ad avere un’opinione su tutto, nè tantomeno a condividerla. La bellezza di farmi i cazzi miei in un adulto, dignitiso silenzio, raga, voi non avete idea che bellezza.
Ma vorrei – sto riuscendo, lentamente, come con una lunga terapia di riabilitazione – ritrovare il tempo benedetto della noia, del non-intrattenimento, dello scacciare le vritti davanti al mio cervello per potermi concentrare nuovamente su compiti importanti per la mia vita ed esercitare quella stessa creatività che da bambino mi faceva sembrare una scopa come un’astronave. Quella roba lì.

L’uso eccessivo e smodato della tecnologia, lo sappiamo, è un problema. Il fentanyl era un ottimo antidolorifico per i cavalli e ora è una droga che fa a pezzi interi stati.
Forse, tra venti anni, l’uso eccessivo degli smartphone verrà considerato al pari di tabagismo e di alcoolismo. E chi stia sempre davanti al telefono verrà tacciato di essere uno sfigato e una scimmia ipnotizzata. Chissà.
Intanto, io nel mio piccolo, me ne tiro fuori.
Sapete dove trovarmi, qua fuori.

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Luddismo, per antonomasia chi sia nemico degli sviluppi tecnologici ↩︎
  2. una volta avrei detto la Tesla. I tempi cambiano, vedete? ↩︎

in obtusitas mea fortitudo
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